VINCENZO MATTINA: IL LAVORO NELLE TRANSIZIONI DI INIZIO MILLENNIO

16 Luglio 2024|Categorie: Comunicazione, Il Cloud del Lavoro|

Il lavoro nelle transizioni di inizio millennio

Vincenzo Mattina, già parlamentare europeo, ne il “Cloud del Lavoro 2023-2024” esamina le grandi transizioni storiche e il loro impatto sul mercato e sui rapporti di lavoro, sia autonomi che dipendenti. Ad aver promosso riforme contenenti i germi di una nuova visione dei rapporti di lavoro furono Tiziano Treu, Marco Biagi e Giuliano Poletti: con le riforme del lavoro in Italia da loro promosse si riconobbe la necessità di diverse articolazioni dei rapporti di lavoro in Italia, per rispondere alle mutate esigenze del mercato.

Oggi, con l’avvento della globalizzazione caratterizzata dall’uso intensivo delle tecnologie digitali, la stabilità lavorativa deve essere vista come una condizione dinamica. In questo nuovo contesto lavorativo, infatti, si richiede maggiore flessibilità ai lavoratori accompagnata da una formazione continua e da un sistema di welfare integrato pubblico/privato.

In questo scenario, ben si inquadra la somministrazione di lavoro che rappresenta un modello di flessibilità strutturata e socialmente sostenibile. Le Agenzie per il Lavoro prevedono costi orari più elevati rispetto ad altre tipologie di rapporto di lavoro per via degli oneri previdenziali e contributivi, nonché alla remunerazione per l’attività di ricerca, selezione e gestione amministrativa del personale. Ma con questo modello di lavoro flessibile viene integrato e migliorato il welfare pubblico, offrendo formazione mirata e misure targetizzate.

Il contributo di Vincenzo Mattina tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

Le regole e le parti sociali

IL LAVORO NELLE TRANSIZIONI DI INIZIO MILLENNIO

Le grandi transizioni della storia, climatiche, tecnologiche, politiche, ecc., si identificano e si leggono ex  post; chi le vive riesce a percepirne il divenire, molto meno o niente affatto l’approdo. È quanto sta  accadendo a noi viventi del quinto lustro del XXI secolo, alle prese con gli sconvolgimenti climatici, con  le turbolenze dei rapporti politici mondiali, con l’indebolimento del valore della pace, con le divaricazioni delle condizioni sociali nei Paesi e tra i Paesi, con la mutazione continua e scarsamente  controllabile degli andamenti economici, con l’invasività destabilizzante delle innovazioni tecnologiche.

Le ricadute di questo tellurismo sui rapporti di lavoro, siano essi autonomi o dipendenti, sono enormi e  percepite dai più come incontenibili e insormontabili.

Sulla dimensione e sulla pervasività del fenomeno si è detto e si è scritto di tutto e di più; sull’insormontabilità è necessario non rimaner fermi in speranzosa attesa e non affidarsi a rimedi  propalati dall’influencer o dal populista di giornata, che confondono la dignità del lavoro con  l’assistenzialismo deresponsabilizzante.

Per contrastare la riproposizione/rivendicazione di un irrigidimento dei rapporti di lavoro, da conseguire con una legislazione fatta di abrogazioni, sanzioni, premialità, è necessario ragionare serenamente sulla  necessità di un mercato del lavoro controllato, ma non sclerotizzato, esigenza che viene da lontano e non è figlia di imposizioni, bensì dall’accordo, frutto di un negoziato memorabile tra il governo Ciampi  (ministro del Lavoro Gino Giugni), Confindustria e i tre sindacati confederali del 23 luglio 1993, che al paragrafo d) su occupazione giovanile e formazione, prevedeva di «disciplinare anche nel nostro Paese il  lavoro interinale per rendere più efficiente il mercato del lavoro» e che, sottoposto alla consultazione  delle lavoratrici e dei lavoratori in ben 26.000 assemblee, fu approvato con il 67,1% di voti favorevoli.

Si era già in pieno dispiegamento della terza Rivoluzione Industriale per l’enorme sviluppo e l’invadenza dell’informatica con le sue conseguenze sulla produzione, gli scambi commerciali, la magmatica crescita e internazionalizzazione delle transazioni finanziarie.

Tra il 1986 e il 1993 erano state, per altro, licenziate le 300 direttive dell’Atto Unico Europeo, ideato e  portato a termine da J. Delors, il più memorabile presidente della Commissione europea, e nel dicembre del 1993 sempre Delors aveva firmato e diffuso il Libro Bianco «Crescita, Competitività, Occupazione», il cui contenuto e la cui visione sono in linea con l’accordo citato innanzi.

Il prof. Giugni, eletto deputato nella legislatura successiva, la XII, proprio con riferimento a quel punto  dell’accordo del 1993 e del libro bianco, volle presentare una proposta di legge, associando chi scrive nella stesura e nella firma dell’Atto Camera 1174 del 31 agosto 1994.

Nelle tre grandi riforme che portano i nomi degli autori, Tiziano Treu, Marco Biagi, Giuliano Poletti (quest’ultimo oscurato dall’eccesso di protagonismo dell’allora Presidente del Consiglio, Matteo Renzi), ci sono i germi della nuova visione dei rapporti di lavoro, delineata al tavolo nazionale di una trattativa  storica e a quello europeo di rilancio del processo d’integrazione. Quei germi li identifichiamo nella presa d’atto che, a fronte del continuo mutamento dell’organizzazione del lavoro, della necessità di gestire  l’economia competendo e non arroccandosi nel protezionismo, di essere parte attiva e non solo recettiva delle innovazioni, fosse necessario avere a disposizione diverse articolazioni dei rapporti di lavoro oltre quella storica a tempo indeterminato.

Contrariamente a quanto sostiene una certa vulgata («Il Fatto Quotidiano», la sinistra tardo comunista), non si passa dal lavoro stabile e sicuro a quello «precario legalizzato», come sostenuto dal «Ministro del  balcone», al momento di proporre al popolo il suo decreto Dignità del 12 luglio 2018; si passa, invece, dalla estensione crescente del lavoro nero, occasionale e, in alcuni comparti (è il caso dell’agricoltura) del lavoro servile alla fruibilità di uno strumento di flessibilità del lavoro, finalizzato a dare visibilità a chi non ha un lavoro né santi in Paradiso e ad accumulare apprendimento e pratica, il tutto finalizzato a un inserimento stabile nel mercato del lavoro.

È a questo punto che emerge la necessità di una revisione profonda del concetto di inserimento stabile nel mercato del lavoro, che almeno fino alla terza Rivoluzione industriale è stato sinonimo di posto  stabile e sicuro, intorno al quale ruota il prima (scolarizzazione e formazione) e il dopo (pensionamento)  delle stagioni della vita umana. Questa rigida temporizzazione ha cominciato a perdere linearità già con  la quarta R.I., quella della globalizzazione che ha visto prevalere la finanza sulla produzione, e sta subendo un’ancora più rapida mutazione con la quinta, che ha come baricentro l’uso sempre più  intensivo e creativo delle tecnologie digitali.

La stabilità lavorativa, in questo nuovo contesto, non può che essere una condizione di vita dinamica connotata da prestazioni lavorative come parte di un tutto, che può svilupparsi in modi e luoghi diversi,  per tempi lunghi o brevi, intercalati sempre e comunque da fasi di qualificazione e riqualificazione quali  assi portanti di un sistema di welfare pubblico/privato; in una sintesi d’impatto potremmo dire che gli obiettivi da perseguire sono: dare stabilità alla condizione di lavoro, flessibilità all’impiego, continuità  alla formazione assistita.

La sinergia tra questi tre momenti non può realizzarsi con gli intrugli di divieti e premi, che vengono propinati da correnti di pensiero che non riescono a misurarsi col tellurismo del nostro tempo, nella  presunzione che, costruendo un piedistallo al posto, si possano ricostruire certezze esistenziali per l’oggi e nuove aspettative per il domani. È, invece, il tempo della flexsecurity, prendendo a riferimento i sistemi di costruzione antisismici che sono basati sull’utilizzo di materiali e di modalità di assemblaggio  che mettono al riparo anche i grattacieli dai sussulti e dalle onde di un terremoto; il Giappone ne è un esempio.

Per mettere in opera un sistema del lavoro flessibile e sicuro occorre partire da soluzioni che non  abbiano nulla a che vedere con la precarietà, che è tale perché non ha regole e, quando le ha, le elude, è basata sull’impoverimento delle mansioni, sulla loro totale improgrammabilità, sull’imprevedibilità del loro valore economico, sulla mancanza di protezione antinfortunistica, per non parlare di quella pensionistica e di quella sanitaria (la pubblica è assicurata formalmente, non certo praticamente).

La sola pratica strutturata e socialmente sostenibile di lavoro flessibile è quella della somministrazione di lavoro (anche definita in precedenza interinale o temporanea), che viene praticata dalle Agenzie per il  lavoro (ApL), soggetto di intermediazione tra offerta e domanda di lavoro, che, fin dal primo vagito, non  ha mai avuto lo scopo di ricercare e mettere a disposizione dei soggetti committenti donne e uomini con  costi orari inferiori a quelli percepiti dalle lavoratici e dai lavoratori di pari inquadramento in forza a tempo indeterminato presso i committenti stessi.

Basta una lettura anche rapida delle tre leggi richiamate innanzi per avere la conferma formale dell’obbligatorietà del maggior costo del lavoro somministrato rispetto a qualunque altra tipologia di  rapporto di lavoro a parità di inquadramento, in primis quella a tempo indeterminato; ciò per la  semplice ragione che al costo orario (paga contrattuale + oneri previdenziali + incrementi da  contrattazione aziendale) si aggiunge per legge una contribuzione del 4,2%, per un importo totale nel  2022 di circa € 400.000.000,00 che va agli enti bilaterali per la formazione mirata in ingresso e in  itinere e per una serie di provvidenze individuali negoziate tra Assolavoro (l’Associazione delle ApL) e i 3 sindacati rappresentativi dei lavoratori del comparto. Il costo orario cresce ancora di più per l’aggiunta  della remunerazione a favore delle ApL per l’attività di ricerca, qualificazione e gestione amministrativa  del personale.

A oggi non è chiaro come vogliano muoversi gli attori della politica sociale, governo e opposizione parlamentare, sindacati, rappresentanze delle imprese. Ciascuno difende il suo orto, alzando le  recinzioni dei suoi punti di vista, senza riuscire neanche a far chiarezza, invece di immaginare una strategia di confronto vero e di ricerca di soluzioni condivise.

La combinazione di interventi formativi e prestazioni destinate alle persone somministrate sia a tempo determinato che indeterminato configura, in definitiva, un sistema di welfare che di sicuro integra e migliora il welfare pubblico che da molti anni funziona sempre peggio.

 


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo di Vincenzo Mattina, già parlamentare europeo, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

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