MARIANO CORSO: TRA TALENT SHORTAGE E GRANDI DIMISSIONI

6 Febbraio 2024|Categorie: Il Cloud del Lavoro|

Tra talent shortage e grandi dimissioni: perché l’Italia del lavoro non attrae? Che ruolo hanno i nuovi modi di lavorare?

Mariano Corso nel suo intervento su “Il Cloud del Lavoro 2023-24” analizza la complessa situazione del mercato del lavoro in Italia in relazione alla transizione digitale e all’automazione. Contrariamente alle previsioni di una possibile economia senza lavoro a causa dell’automazione, si evidenzia in verità una crescente difficoltà per le imprese nel trovare personale qualificato. Questo fenomeno è globale, con previsioni di carenze di lavoratori qualificati in vari Paesi, inclusi Stati Uniti, Russia, Cina e altri. In Italia, il problema si manifesta con una notevole difficoltà nell’assumere personale specializzato, mettendo a rischio anche gli interventi previsti dal PNRR.

Il Responsabile scientifico dell’Osservatorio sullo Smart Working sottolinea che non solo le imprese faticano a reclutare profili, ma anche a trattenere e motivare i lavoratori attuali. Si evidenzia infatti un aumento delle dimissioni e del Quiet Quitting, un fenomeno in cui i dipendenti – insoddisfatti e frustrati – rimangono al lavoro solo superficialmente, compromettendo l’innovazione aziendale. Una ricerca del Politecnico di Milano rivela che una percentuale significativa dei lavoratori italiani cerca significato, benessere e realizzazione personale a 360° nel lavoro, ma che solo il 10% di questi dichiara di “stare bene” in termini di benessere fisico, sociale e psicologico. Le dimissioni rappresentano perciò un campanello d’allarme e indicano la necessità di un cambio di paradigma nei modelli organizzativi e nelle relazioni industriali.

Il Professore nel contributo sottolinea la necessità di ascoltare i bisogni dei lavoratori e di affrontare la crisi come un’opportunità per progettare modelli organizzativi, sistemi di welfare e retribuzione che vanno oltre l’approccio tradizionale. Si propone di esplorare nuove modalità di lavoro, ma si avverte il rischio di una “normalizzazione” dello smart working, che potrebbe ridurne l’efficacia. L’articolo invita a considerare questa fase come un periodo di scelte cruciali che coinvolgono organizzazioni, individui e policy maker.

 

Il contributo di Mariano Corso tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

La transizione digitale, l’AI e il lavoro liquido

TRA TALENT SHORTAGE E GRANDI DIMISSIONI: PERCHÉ L’ITALIA DEL LAVORO NON ATTRAE? CHE RUOLO HANNO I NUOVI MODI DI LAVORARE?

Per anni ci siamo interrogati sul futuro del lavoro, sul rischio che, per effetto dell’innovazione tecnologica, si andasse verso una «economia senza lavoro». Nel 2007 l’Oxford Economics pronosticò che il 45% dei lavori sarebbero stati eliminati dall’automazione e ci sarebbe stato un rapido declino della forza lavoro umana. Ancora nel 2017 uno studio di McKinsey prevedeva che entro 5 anni il 60% dei lavori sarebbero stati automatizzati per almeno il 30% delle attività. Ma è stato davvero così?

La realtà sembra oggi essere un’altra: sempre più imprese non trovano persone adeguate a coprire le posizioni vacanti. Si tratta di un fenomeno globale: entro il 2030, la Cina potrebbe avere una carenza di oltre 12 milioni di lavoratori, Stati Uniti e Russia di oltre 6. Una situazione ancora peggiore potrebbe essere quella di Paesi come Giappone, Indonesia e Brasile, ognuno dei quali potrebbe avere carenze fino a 18 milioni di lavoratori qualificati. L’inverno demografico, unito alla difficoltà di riqualificare i lavoratori potrebbe cambiare in modo drastico il destino dell’economia mondiale, con Paesi come l’India che potrebbero diventare i prossimi leader tecnologici in quanto unici a poter sviluppare abbastanza lavoratori qualificati.

E in Italia non va certamente meglio: il Cnel mette in luce come, nei primi nove mesi del 2022, su quasi 420 mila nuove assunzioni mediamente previste, 170 mila (il 40.3%) sia risultato di difficile reperimento; nello stesso periodo del 2019, questa quota si attestava al 28.2%. La mancanza di personale specializzato rischia persino di compromettere il Pnrr. Lo stesso Cnel stima che tra il 2022 e il 2026 ci sarà bisogno di 4,1-4,6 milioni di assunzioni di laureati in ingegneria, informatica e scienze matematiche. Numeri che il nostro sistema educativo non sembra davvero in grado di attrarre e produrre.

Ma c’è di peggio: le imprese italiane non sembrano nemmeno in grado di attrarre, trattenere e motivare i lavoratori attuali. Sempre più giovani qualificati vanno all’estero. Sempre più lavoratori decidono di dimettersi e molti di più sono i cosiddetti «intenders», coloro che, pur non avendo dato le dimissioni hanno intenzione a breve di farlo. Da una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano emerge che il 47% dei lavoratori privati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione a farlo da qui a 18 mesi. Sono numeri impressionanti, proprio perché si verificano nel nostro Paese, nonostante l’alto tasso di disoccupazione, nonostante la rigidità del mercato del lavoro, nonostante il mismatch di competenze e professionalità che rende fragile l’impiegabilità di gran parte dei lavoratori e nonostante la scarsa propensione alla mobilità degli italiani.

Le dimissioni nel nostro Paese sono solo la punta dell’Iceberg, il sintomo di un disagio ben più profondo: a dare le dimissioni da noi sono coloro che non ne possono proprio più, o che hanno in mano valide alternative, ma sono molti di più coloro che vorrebbero lasciare il lavoro ma che, proprio per le su citate rigidità, restano, ma senza entusiasmo né motivazione. Sono persone che per necessità «vanno al lavoro», un lavoro che sentono però non rappresentarli più. È il fenomeno del cosiddetto Quiet Quitting, l’abbandono silenzioso: deluse del loro lavoro e spesso frustrate dalla difficoltà a cambiarlo le persone restano ma, si «spengono»; sono disposte a svolgere solo lo stretto indispensabile, rifiutando di assumersi ulteriori oneri e responsabilità e, soprattutto, di mettersi in gioco per il cambiamento. Un fenomeno che è per certi versi ancora più preoccupante delle dimissioni, in un momento come questo in cui la capacità di un’azienda di innovare ed evolvere per rispondere al nuovo quadro della competizione rappresenta una condizione essenziale di sopravvivenza.

L’aumento delle dimissioni, quindi, al di là di essere costoso in sé, va visto come un potente campanello di allarme, il segnale di un disagio profondo che richiede un cambio di paradigma nei modelli organizzativi, nelle relazioni industriali, nel significato stesso del rapporto tra individui e organizzazioni.

Occorre innanzitutto ascoltare, capire cosa chiedono davvero i lavoratori, sia quelli che danno le dimissioni, che quelli che decidono di restare. Se andiamo nel profondo scopriamo che la domanda fondamentale che muove i lavoratori è una ricerca di senso, di benessere, di realizzazione come persone a 360°. Anche su questo fronte la ricerca del Politecnico di Milano fornisce evidenze che consentono di vedere quanto il fenomeno sia rilevante: solo il 10% dei lavoratori italiani dichiara di «stare bene» in termini di benessere fisico, sociale e, soprattutto, psicologico. Coloro che danno le dimissioni in molti casi non lasciano solo un’azienda, un contratto di lavoro, ma lasciano un sistema di relazioni non appaganti, un territorio che non li accoglie, una vita in cui si sentono imprigionati e che non offre loro prospettive.

Se compresa e gestita in profondità questa crisi può essere un punto di svolta, l’occasione per progettare modelli organizzativi, sistemi di welfare e retribuzione, che non siano puro anestetico al lavoro o tentativi di separare dalla vita la spiacevole parentesi del lavoro. La sperimentazione di nuove modalità di lavoro, in particolare può contribuire a dare molte risposte, ma solo se condotta con coerenza e visione. Obbligati dalla pandemia a lavorare da remoto molti lavoratori hanno aperto loro gli occhi: hanno scoperto che molte delle routine a cui da sempre si sottoponevano, convinti che fossero l’unico modo di «essere al lavoro», non avevano in realtà senso. Quello che molti lavoratori hanno sperimentato e si trovano tutt’oggi a sperimentare, tuttavia, non è il «vero» smart working, ma una forma di lavoro da remoto «incompiuta», nella quale vengono a mancare quei presupposti di autonomia e responsabilizzazione sui risultati su cui dovrebbe fondarsi quella «innovazione di significato» che è lo smart working.

Questo cambiamento incompiuto porta con sé criticità come senso di isolamento, perdita di engagement e identità, che non si riscontrano in modelli di smart working maturi. Il rischio più grande oggi è che una malintesa «normalizzazione» porti a ricondurre lo smart working al solo lavoro da remoto, inteso non come occasione di ripensamento dei processi e assunzione di autonomia e responsabilità, quanto piuttosto come «concessione» ad alcuni di un nuovo privilegio finalizzato al miglioramento del work-life balance. Questa pericolosa deriva, come dimostrano i recenti studi pubblicati dal Politecnico di Milano, non solo riduce drasticamente l’impatto positivo sulle prestazioni delle organizzazioni, ma finisce con il ripercuotersi sugli stessi lavoratori, sia in termini di engagement e crescita professionale che di benessere psicologico e relazionale. Occorre quindi riflettere urgentemente su cosa sia il «vero smart working», che può e deve essere l’occasione per attuare un cambiamento profondo, incentrato sul lavoro per obiettivi e una digitalizzazione intelligente delle attività.

Oggi siamo quindi in un momento importantissimo in cui le organizzazioni devono decidere che proposizione di valore rivolgere ai lavoratori «attuali» e quelli futuri. Le possibilità sono tre:

  1. Restare, o tornare, a un modello di lavoro tradizionale in presenza;
  2. Stabilizzare la possibilità di lavorare parzialmente da remoto, limitando però la flessibilità a questo aspetto, senza mettere in discussione i modelli organizzativi e di leadership;
  3. Procedere verso un modello di smart working completo, accompagnando una progressiva e sempre più differenziata flessibilità nella scelta dei luoghi di lavoro, con interventi sulla flessibilità dell’orario di lavoro, sulle competenze digitali, sul ridisegno degli spazi e sull’evoluzione del modello manageriale e di leadership nella direzione del lavoro per obiettivi.

Le possibilità sono tre, ma solo la terza consente di dare una risposta sostenibile e coerente ai nuovi bisogni e alle nuove inquietudini di lavoratori e imprese. Proprio per questo non siamo nel tempo delle grandi dimissioni, ma in quello delle grandi scelte, una sfida che riguarda tutti. Riguarda certamente le organizzazioni, pubbliche e private, che con la caduta dell’engagement rischiano di compromettere la propria competitività e attrattività. Riguarda le persone, che devono passare dal momento della consapevolezza e della voglia di evasione, alla concreta costruzione di un nuovo equilibrio di vita. Riguarda infine i Policy Maker che devono avere il coraggio di promuovere una riforma del lavoro che faciliti e premi chi investe in competenze, chi propone modelli di organizzazione del lavoro più moderni e inclusivi, chi si impegna a offrire un lavoro sostenibile e di qualità.

 


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo dell’Avvocato Aldo Bottini è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

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