GIULIO PROSPERETTI: LAVORO NERO E FINANZIAMENTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE
Lavoro nero e finanziamento della previdenza sociale
Giulio Prosperetti nel suo intervento su “Il Cloud del Lavoro 2023-2024” analizza il fenomeno del lavoro sommerso. L’economia sommersa in Italia ha assunto dimensioni sempre più elevate, ma a finire nel mirino è il solo costo del lavoro, che gravato da oneri previdenziali e fiscali andrebbe a incentivare il lavoro nero scoraggiando l’assunzione regolare.
Ma quali sono le problematiche connesse al lavoro sommerso? Negli ultimi anni il sistema di sussidi non si è dimostrato efficacemente correlato alla ricerca di un’occupazione e il divario tra lavoro nero e lavoro legale è rimasto elevato. A questo si aggiunge il tema del costo del lavoro che per le imprese è quasi il doppio di quanto percepito dal lavoratore. Questo è dato dal fatto che il sistema previdenziale-assicurativo è basato sulle contribuzioni individuali.
Per contrastare dunque lo sfruttamento del lavoro nero una strada sarebbe proprio costituita da una radicale riforma del finanziamento del welfare. Come? Con il finanziamento della previdenza parametrato al reddito complessivo dell’impresa o al fatturato Iva, superando il sistema dei contributi individuali. In questo modo si potrebbe ridurre il costo del lavoro per le imprese e garantire una maggiore equità nel sistema di finanziamento del welfare. Per un tale cambiamento resta ad ogni modo necessario il superamento dell’evasione fiscale e il sostegno di tutti gli attori coinvolti.
Il contributo di Giulio Prosperetti tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”
Il tempo che verrà: le prospettive
LAVORO NERO E FINANZIAMENTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE
In Italia si stima il valore dell’economia sommersa intorno ai 220 miliardi e c’è chi sostiene che il benessere del Paese non possa prescindere da tale apporto. Anche il lavoro nero non sembra essere oggetto di una generale condanna, infatti, secondo alcuni, a fronte di un’insufficiente politica di sussidi, l’integrazione di reddito dovuta all’economia sommersa ha finito per rappresentare un’accettabile situazione di compromesso. Sotto accusa è il costo del lavoro gravato da oneri previdenziali e prelievo fiscale, sicché l’economia sommersa finirebbe per avere una sua giustificazione. Si sono sperimentate negli anni diverse forme di sostegno al reddito, dall’uso massiccio della Cassa integrazione guadagni straordinaria alla mobilità lunga fino alla Naspi, e, soprattutto, all’attuale Reddito di cittadinanza.
Il problema è stato sempre quello di come correlare il diritto al sussidio con la ricerca di un’idonea occupazione. L’offerta da parte del collocamento pubblico di un’occupazione per i percettori di un reddito assistenziale è stata sempre vista come una minaccia in quanto un’offerta di lavoro rifiutata viene a determinare la fine dell’erogazione della provvidenza assistenziale.
Ricordo cause intentate da persone alle quali era stato offerto un lavoro, le quali sostenevano che in graduatoria erano precedute da altri che avrebbero dunque avuto maggior titolo per essere più invitati al lavoro.
La realtà è quella di persone che godono delle provvidenze pubbliche e che, parallelamente, svolgono un’attività nel sommerso; il cumulo tra il sussidio e il lavoro nero sembra infatti consentire un reddito complessivamente migliore che non un lavoro regolare, spesso solo precario.
Nel dibattito odierno sul Reddito di cittadinanza, anche alla luce degli abusi che sono stati segnalati, non si fa adeguata menzione proprio al problema del lavoro nero, che invece – a mio avviso – costituisce il punto nevralgico per una corretta impostazione del problema.
Bisogna innanzitutto costruire un sistema nel quale la ricerca di un lavoro dignitoso sia desiderata dal cittadino disoccupato e non sia, al contrario, considerata come una pena per la perdita del Reddito di cittadinanza. Insomma, se non si risolve il problema dell’economia sommersa non sembra possibile nemmeno trovare idonee soluzioni alla condizionalità connesse al Reddito di cittadinanza.
In realtà è stata giustamente imboccata dalle istituzioni la strada della riduzione del cuneo fiscale, il cui alto ammontare indubbiamente induce alcuni datori di lavoro ad avvalersi del lavoro irregolare, ma anche a fronte degli interventi sulla riduzione del cuneo fiscale, divario tra lavoro nero e lavoro legale, rimane comunque troppo elevato.
Comunque, va considerato che la manovra di bilancio prevede la riduzione del cuneo fiscale in funzione di un aumento delle retribuzioni e lascia pertanto inalterato il costo globale del lavoro.
Certamente la prevista riduzione del cuneo fiscale non sarà in grado di rendere il lavoro sommerso concorrenziale con il lavoro legale, ma, del resto, come si è detto, non è questa la sua finalità.
Resta il problema che tra contributi previdenziali e ritenuta Irpef il costo del lavoro per le imprese è quasi il doppio di quanto in concreto percepito dal lavoratore; in una situazione in cui è prioritario dare lavoro non solo ai fini del sostentamento economico del lavoratore, ma anche a garanzia della sua dignità di cittadino; il fatto che il reddito da lavoro sia il più tassato non sembra favorire il perseguimento di quel diritto al lavoro garantito dall’art. 4 della Costituzione.
Ma come si può ristrutturare il costo del lavoro in modo da rendere meno conveniente il ricorso al lavoro nero?
Ora, il lavoro finanzia il welfare e lo fa attraverso il pagamento dei contributi previdenziali che sono a carico del datore di lavoro per il 23,81% e per il 9,19% a carico del lavoratore per un totale del 33%: è di tutta evidenza il carattere specioso di tale diversa attribuzione, atteso che l’onere complessivo sul costo del lavoro è comunque tutto a carico del datore di lavoro.
Il problema risiede nel fatto che il sistema previdenziale-assicurativo è sostenuto dalle contribuzioni individuali o meglio da ciò che il datore di lavoro versa agli istituti previdenziali su ogni lavoratore impiegato.
Il sistema aveva una sua ratio in un contesto di tendenziale piena occupazione e soprattutto in un sistema paleo-industriale in cui, secondo la teoria marxiana del valore, era appunto il lavoro a incorporarsi nei beni prodotti e a dare loro il corrispondente valore; pertanto, più alto era il numero di lavoratori impiegati in un’impresa, più valore si incorporava nei beni prodotti e, verosimilmente, anche le imprese con più dipendenti erano in proporzione quelle che registravano maggiori utili.
È di tutta evidenza che, da molti anni, non è più questo il quadro di riferimento: le imprese labour-intensive sono quelle che hanno minori proventi rispetto ad aziende che operano in settori più all’avanguardia spesso con personale molto ridotto.
Il commercio e l’innovazione tecnologica vincono sul fattore lavoro, ma, e qui sta il paradosso, il finanziamento della previdenza rimane ancorato al singolo lavoratore individuale, cosicché un’azienda con tanti lavoratori e con bassi profitti finanzia il welfare in misura maggiore che non un’azienda con pochi lavoratori e alti profitti.
I progressi della robotica si dice che porteranno a dimezzare nei prossimi anni la forza lavoro, aumentando la disoccupazione nel settore manifatturiero, anche se gli esperti spiegano che nasceranno nuove occasioni di lavoro in settori più specialistici, ma una tale trasformazione rischia di vedere sacrificata almeno una generazione nell’attesa della complessiva ristrutturazione dei processi produttivi.
Ecco allora che, dovendoci occupare dell’attuale contingenza in un Paese che conserva una forte componente manifatturiera, veniamo a considerare che il dumping sociale di alcuni Paesi terzi, anche europei, sta via via erodendo questo settore proprio a causa del costo del lavoro.
Una proposta in favore delle imprese labour-intensive, quelle cioè capaci di garantire un’offerta di lavoro ampia ed estesa anche a lavoratori meno qualificati, potrebbe essere quella di una radicale riforma del finanziamento del welfare.
Innanzitutto, occorre distinguere fra finanziamento e correlative prestazioni: è vero che il sistema contributivo ha stabilito un rapporto fra il versato e il ricevuto e cioè fra contribuzioni e pensioni, ma sappiamo che si tratta di un rapporto puramente virtuale, giacché il sistema rimane un sistema a ripartizione in quanto il prelievo contributivo serve al pagamento delle pensioni correnti secondo il concetto di solidarietà intergenerazionale.
Non essendoci il materiale accantonamento dei contributi versati, la trasformazione di questi nella prestazione pensionistica costituisce un processo separato che prescinde dal metodo di finanziamento delle prestazioni: si può pertanto ipotizzare un sistema in cui la quantificazione delle pensioni sia del tutto autonoma rispetto al finanziamento del sistema previdenziale.
L’idea è quella di una completa fiscalizzazione del sistema previdenziale che potremmo considerare attualmente già fiscalizzato per un terzo in considerazione del contributo che lo Stato versa all’Inps.
In pratica, la proposta è quella di un finanziamento della previdenza sociale, non già basato sulle assicurazioni individuali e i relativi contribuiti, ma su un finanziamento parametrato al reddito complessivo dell’impresa ovvero al fatturato Iva, cosicché siano le imprese con attività più redditizie a pagare i maggiori contributi a prescindere dal numero degli addetti.
Diverso problema è poi quello della valutazione della meritevolezza delle posizioni individuali ai fini della quantificazione dei rispettivi trattamenti pensionistici: problema, quest’ultimo, che, stante l’attuale precariato, porterà già ad una sorta di fiscalizzazione dei trattamenti previdenziali per quanti, non raggiungendo un adeguato numero di contributi, dovranno ricorrere alla pensione di cittadinanza.
Forse il maggior problema per un tale rivoluzionario cambiamento in ordine al finanziamento del welfare è rappresentato dalla endemica evasione, più difficile da contrastare rispetto all’attuale sistema basato sui contributi individuali per i quali è facile il riscontro; l’Italia è sotto accusa da parte dell’Unione Europea proprio per l’evasione dell’Iva che rappresenterebbe, invece, proprio il parametro d’elezione per stabilire la contribuzione dovuta da ciascuna impresa.
Non mi nascondo i problemi che un epocale cambiamento, come quello proposto, può incontrare, ma è certo che l’attuale sistema sembra favorire proprio la disoccupazione e la delocalizzazione delle imprese, favorendo, al contempo, l’economia sommersa.
Credo, comunque, che qualsiasi riforma del mondo del lavoro e della sicurezza sociale sia impossibile senza il superamento della piaga della evasione fiscale e del lavoro nero, sicché solo all’esito di questi pregiudiziali interventi potremmo ragionare nel bilanciamento tra un sistema di sussidi, come il Reddito di cittadinanza, e le politiche attive del lavoro.
IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024
Il contributo di Giulio Prosperetti, giudice costituzionale e Professore emerito di Diritto del Lavoro all’Università tor Vergata, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.
L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.
Assolavoro pubblica in esclusiva ogni settimana un contributo tratto dalla pubblicazione con l’obiettivo di stimolare il dibattito online sul futuro del mercato del lavoro.