FRANCESCO SEGHEZZI: TRA TECNOLOGIA E DEMOGRAFIA, LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO CHE ANCORA NON COMPRENDIAMO FINO IN FONDO

4 Giugno 2024|Categorie: Comunicazione, Il Cloud del Lavoro|

Tra tecnologia e demografia, le trasformazioni del lavoro che ancora non comprendiamo fino in fondo

Francesco Seghezzi, Presidente Fondazione Adapt, ne il “Cloud del Lavoro 2023-2024” analizza l’innovazione tecnologica e gli impatti nel mercato del lavoro. Il tema della digitalizzazione è tornato al centro del dibattito sul lavoro già prima della pandemia, spesso affrontato con la preoccupazione che l’incremento della tecnologia possa comportare una riduzione dei posti di lavoro. È importante però spostare il punto di vista da una visione allarmistica a una più equilibrata, riconoscendo che il fenomeno è soprattutto di trasformazione.

Un esempio concreto è fornito da uno studio dell’OCSE che indica come solo il 9% delle professioni attuali sia a rischio di totale eliminazione, mentre il 35% subirà una profonda trasformazione a causa dell’automazione. Inoltre, la digitalizzazione dei processi produttivi ha aumentato la componente intellettuale del lavoro, qualificando in questo senso le professionalità richieste. Per questo è richiesta una rapida riqualificazione e formazione continua per adattare i lavoratori ai nuovi processi tecnologici.

L’innovazione digitale deve essere vista come uno strumento e un’opportunità. Non va comunque ignorato l’impatto dei cambiamenti demografici. La crescente dinamica di turnover e flussi tra diversi posti di lavoro dimostra come la domanda di competenze specifiche create dalle nuove tecnologie renda i lavoratori più preziosi e contrattualmente potenti.

Per comprendere appieno la complessità della trasformazione digitale è necessario un approccio che consideri vari fattori, inclusi quelli demografici e le preferenze individuali dei lavoratori. La formazione dei giovani deve concentrarsi non solo sulle competenze tecniche, ma anche su quelle trasversali e personali, necessarie per navigare in un mercato del lavoro in continua evoluzione tecnologica.

Il contributo di Francesco Seghezzi tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

La transizione digitale, l’AI e il lavoro liquido

TRA TECNOLOGIA E DEMOGRAFIA, LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO CHE ANCORA NON COMPRENDIAMO FINO IN FONDO

Non c’è dubbio che il tema della digitalizzazione abbia contribuito a rimettere al centro quello del lavoro, già prima della pandemia. Molto spesso però i due fronti sono stati affiancati come stessi lati di una calamita che si respingono, come se l’aumento di uno implicasse l’automatica riduzione dell’altro. Complice di questa visione sensazionalistica è stata anche una certa pubblicistica che ha basato il suo successo sull’allarmismo provocato dai propri risultati.

Si è così diffusa la vulgata che le nuove frontiere della digitalizzazione, spesso dipinte come «le magnifiche sorti e progressive» altro non fossero che un concetto altisonante utile per indorare la pillola di una massiccia perdita di posti di lavoro. Negli ultimi tempi però diverse analisi stanno contribuendo a riportarci alla realtà, aiutandoci a spostare il punto di osservazione.

Questo non significa rispondere agli allarmi apocalittici con un altrettanto esagerato ottimismo cieco, quanto piuttosto riconoscere che non siamo di fronte a un fenomeno caratterizzato unicamente dalla distruzione, quanto soprattutto dalla trasformazione. Basti pensare che in Italia abbiamo oggi, nel pieno di una complessa e variegata serie di trasformazioni tecnologiche, il più alto numero di occupati da quando esistono le serie storiche. In effetti la sfida di un ricercatore oggi dovrebbe essere quella di passare dall’affermazione «la tecnologia distrugge lavoro» a «la tecnologia distrugge lavori, trasformando il lavoro». Sembra poco ma tutto si racchiude in questa piccola differenza sostanziale. Che le professioni siano state rese obsolete dall’avvento di tecnologie che, in particolare relativamente all’utilizzo della forza fisica, potevano sostituire con strumenti meccanici il lavoro umano non è certo una novità.

Così come non è una novità il calo della percentuale di lavoratori occupati nel settore industriale, costante in Italia dal 1980 e già dagli anni Cinquanta negli Usa. Recentemente uno studio Ocse ha mostrato come, a differenza di altri studi che prevedevano l’elevato rischio di scomparsa per la metà delle professioni attuali, il rischio di totale eliminazione riguardi il 9% dei lavori mentre percentuali molto maggiori (circa il 35%) sarebbero quelle che andranno incontro a una profonda trasformazione derivante dall’automazione di determinate mansioni al loro interno.

Non sono poche le evidenze empiriche sul passato né le previsioni sul futuro disponibili che mostrano come la tendenza sia stata e probabilmente sarà quella di una trasformazione e una sostituzione. La differenza con il passato si dovrebbe riscontrare in due elementi: da un lato tempi di sostituzione molto più rapidi, dall’altro la potenzialità di sostituire attività un tempo considerate un porto sicuro in quanto non-routinarie e a forte valore aggiunto intellettuale. A fronte di questo scenario probabile il concetto stesso di rivoluzione digitale acquista un valore particolare. Inteso all’interno di un contesto più generale il fenomeno tecnologico innanzitutto acquista il proprio spazio all’interno di una complessità di fattori che spesso vengono dimenticati, come quello del contesto internazionale e quello demografico. Inoltre, risulta più semplice abbattere muri e confini propri di un modello di impresa novecentesco che incideva non poco nel pensare e organizzare il lavoro.

Il lavoro in questo contesto sembra acquistare un valore differente a seconda dei modelli produttivi che si sviluppano. La digitalizzazione dei processi accresce, come ormai avviene dagli anni Settanta, la componente intellettuale della prestazione e con essa qualifica in tal senso le professionalità richieste. L’evoluzione degli occupati in Italia mostra come nel corso degli ultimi quindici anni siano le professioni intellettuali, più ancora di quelle tecniche specializzate, a essere cresciute parallelamente a una diminuzione del numero degli operai e ad una crescita, in una dinamica di polarizzazione a vantaggio anche dei lavori manuali non automatizzabili, delle professioni poco qualificate.

Questo richiede rapide e precise azioni di riqualificazione e formazione continua per poter adattare la forza lavoro ai nuovi processi. E proprio su questo aspetto emerge una delle caratteristiche più interessanti della trasformazione contemporanea. Se infatti le tecnologie si evolvono molto rapidamente, con esse aumenta il rischio di obsolescenza di competenze fino a poco tempo prima fondamentali.

Ciò fa sì che una eccessiva attenzione sull’iper-specializzazione della forza lavoro, in particolare di quella in entrata che si  riflette sui contenuti della didattica nei percorsi formativi, rischi di generare un effetto negativo. Risulta infatti più importante la capacità di adattamento e di apprendimento di nuovi processi che nel corso del tempo si affermano rispetto alla conoscenza dettagliata di strumenti che in pochi anni scompaiono. In questo senso sia le preferenze delle imprese che le indagini scientifiche mostrano come l’esigenza sia quella di soggetti integrali piuttosto che di specialisti.

Lo scenario di complessità che la trasformazione digitale rappresenta in modo efficace esige soggetti in grado di sapersi orientare all’interno di tale complessità, e questo riguarda sia la gestione dei processi ma anche dimensioni più personali come la gestione di tempi e luoghi di lavoro all’interno di una dimensione che rischia di fagocitare le persone all’interno di un circolo di iper-connessione costante.

La formazione dei giovani, quindi, deve sì concentrarsi su quegli elementi di base necessari per potersi muovere in un mercato del lavoro in cui la tecnologia è sempre più centrale ma allo stesso tempo è necessaria una relazione costante tra ambiente di lavoro e formazione così da apprendere quelle competenze trasversali e quelle abilità che difficilmente possono essere trasferite. Inoltre, studi pedagogici mostrano come l’apprendimento in situazione di compito contribuisca alla costruzione di ulteriori elementi della personalità che vanno nella direzione di un empowerment che non si riduce unicamente alle competenze ma riguarda l’intera personalità.

Sul fronte della gig-economy, sebbene poco sviluppato oggi in Italia così come all’estero (si calcola circa lo 0,5% dei posti di lavoro negli Usa), le sfide sembrano essere simili. Se infatti siamo di fronte a una individualizzazione estrema della prestazione lavorativa, erogata a distanza e in modo semi-anonimo il rischio principale è quello di un disorientamento all’interno della sproporzione tra poteri direttivi e potere del contraente debole che porta poi ad un circolo vizioso di lavori estremamente sottopagati e fonti di estrazione di risorse da parte delle imprese che ne fanno uso. A fronte di questo rischio, che è molto elevato, potrà sembrare utopico ma, insieme a un sistema di tutele che è tutto da ripensare (e da costruire su basi diverse rispetto a quelle del Novecento), la sfida è quella dell’empowerment dei lavoratori, sia individualmente che collettivamente, per non essere soffocati da un sistema più grande di loro.

La sfida resta dunque quella relativa a quale mondo e quale società vogliamo costruire. Troppo spesso ci dimentichiamo che la tecnologia non è un destino ma uno strumento e una opportunità, scaricando così su un progresso cieco ed eterodiretto (da chi non si sa) le responsabilità che sono di tutti, oggi più che mai.

A questo si aggiunge un ultimo rovesciamento della narrazione che ha dominato gli anni recenti. Stanno arrivando al pettine infatti alcuni nodi legati ai cambiamenti demografici che portano a pensare che più che la scomparsa del lavoro a causa della tecnologia il problema oggi sia quello della scomparsa dei lavoratori a causa dello svuotamento delle coorti anagrafiche più giovani. Una dinamica che potrebbe incidere notevolmente sulla qualità del lavoro in quanto le persone più competenti da un lato, ma anche quelle meno competenti e che svolgono lavori routinari dall’altro, potrebbero richiedere maggiori standard di qualità (non solo salariale ma anche in termini di organizzazione del lavoro, orari, turnistica ecc.) spendendo il maggior potere contrattuale da essi posseduto in virtù proprio del fatto che i lavoratori potenziali sarebbero di numero ridotto rispetto all’offerta di lavoro.

Un fenomeno che si inizia ad osservare seguendo la dinamica del fenomeno, invero ancora limitato in Italia ma costante, della crescita delle dimissioni che si sposano con una crescita delle nuove attivazioni di contratti di lavoro a dimostrazione di una crescita del turnover e dei flussi tra diversi posti di lavoro. In questo la domanda di lavoro generata dalle nuove tecnologie rende le competenze dei lavoratori una merce rara e aumenta ulteriormente il loro potere contrattuale, con quali conseguenze ancora non lo sappiamo, ma potenzialmente interessanti.

Si comprende così come uno sguardo verticale sul fenomeno tecnologico che non tenga conto di aspetti variegati come quello demografico o come le rinnovate preferenze individuali, in ambito lavoro, delle persone, rischi di essere miope e di non leggere tutta la complessità che stiamo vivendo.

 


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo di Francesco Seghezzi, Presidente Fondazione Adapt, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

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