NATALE FORLANI: CROLLO DEMOGRAFICO E FLUSSI MIGRATORI

Published On: 12 Marzo 2024|Categorie: Comunicazione, Il Cloud del Lavoro|

Crollo demografico e flussi migratori

Natale Forlani nel suo intervento su “Il Cloud del Lavoro 2023-2024” parte da un’analisi della crisi demografica del Paese. Il calo della popolazione in età lavorativa in Italia rappresenta una grave problematica per la crescita economica e la sostenibilità del sistema sociale italiano. Per capire le dimensioni del problema, basti pensare che negli ultimi 3 anni la popolazione in età lavorativa è diminuita di 640mila unità. Entro il 2039, si stima una riduzione ulteriore di oltre 4 milioni di persone. Tra le cause del fenomeno sicuramente sono da tenere in considerazione la bassa natalità, l’innalzamento dell’età media della popolazione e le politiche per l’immigrazione. Ma anche la crescente difficoltà di reperimento di risorse umane qualificate.

Quali soluzioni possibili? Forlani propone di migliorare l’impiego della popolazione in età lavorativa, aumentando il tasso di occupazione femminile e riducendo il numero dei NEET, nonché favorire l’ingresso di immigrati qualificati promuovendone l’inserimento lavorativo.

È necessario dunque un cambiamento radicale delle politiche del lavoro per fronteggiare il declino demografico, coinvolgendo tutti gli attori sociali: governo, parti sociali, imprese e cittadini. Il futuro dell’economia italiana dipende dalla capacità di attrarre e trattenere talenti, aumentare la produttività e creare un sistema di welfare sostenibile.

Il contributo di Natale Forlani tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

Il tempo che verrà: le prospettive

CROLLO DEMOGRAFICO E FLUSSI MIGRATORI

L’impatto del declino demografico sulla popolazione in età di lavoro in Italia sta assumendo dimensioni tali da rischiare di compromettere qualsiasi prospettiva di sviluppo sostenibile. Eppure, il tema non viene nemmeno preso in seria considerazione nel definire le priorità delle politiche del lavoro.

Nei tre anni recenti, il numero delle persone tra i 15 e i 65 anni di età è diminuito di circa 640mila unità. Nello scenario demografico proiettato dall’Istat sul 2039, che stima anche una media annuale di 150mila nuovi ingressi di cittadini stranieri, la riduzione ipotizzata supera i 4 milioni di persone.

Sono numeri che non trovano riscontro in nessun Paese sviluppato. In grado di compromettere la disponibilità dei fabbisogni di risorse umane per il sistema produttivo e la sostenibilità della spesa sociale per l’esigenza di finanziare l’incremento di 1,6 milioni di pensionati e il fabbisogno crescente della spesa sanitaria e assistenziale.

L’auspicabile ripresa della natalità potrebbe consentire di attenuare parzialmente
questi squilibri sul lungo periodo, ma nell’arco dei prossimi 20 anni i possibili rimedi devono utilizzare leve diverse: un migliore utilizzo della popolazione in età di lavoro; un incremento della produttività e dei redditi familiari per sostenere i fabbisogni della spesa pubblica e privata derivanti dalla crescita del numero delle persone a carico di quelle che lavorano; l’adozione di politiche per l’immigrazione in grado di compensare le carenze di offerta di lavoro.

Purtroppo, il potenziale utilizzo di queste leve risulta compromesso dalla scarsa consapevolezza della drammaticità del problema e dalle evidenti criticità delle politiche del lavoro. Parte delle quali, come il costante aumento della spesa assistenziale per sostenere il reddito delle persone che non lavorano e per anticipare l’età di pensionamento, muovono nella direzione opposta rispetto a tali esigenze.

Nel periodo intercorso tra le due grandi crisi economiche (2008-2021), la distanza tra il tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro italiana rispetto alla media dei Paesi Ue è salita all’11% (+3%) per un equivalente di circa 3,5 milioni di posti di lavoro a parità di popolazione. Le perdite occupazionali subite nel corso della pandemia sono state recuperate nel 2022. Il numero degli attuali occupati 23,2 milioni risulta di poco superiore a quello del dicembre 2008, e la crescita del tasso di occupazione, circa 2 punti, è dovuta essenzialmente alla riduzione della popolazione in età di lavoro (- 1,2 milioni).

Ma nel frattempo nella composizione delle forze lavoro sono avvenuti profondi
cambiamenti.

Quello più preoccupante è segnalato dal rapido invecchiamento della popolazione attiva con la riduzione di 1,7 milioni di occupati under 35, di 1,6 milioni nella fascia dell’età intermedia fino ai 49 anni, e il contemporaneo aumento di 3,7 milioni over 50. Il mancato ricambio generazionale risulta aggravato dalla riduzione di 4 punti del tasso di occupazione dei giovani, dovuto in particolare all’aumento del numero di quelli che non studiano e non lavorano che ha registrato una punta superiore ai 3 milioni nel 2020.

Il numero delle ore medie lavorate si è contemporaneamente ridotto per effetto dell’incremento dei contratti a termine (+850mila, equivalente alla crescita del numero dei lavoratori dipendenti) e a part time (oltre 1 milione di tipo involontario). Il mancato ricambio generazionale si riflette anche nella impressionante contrazione del numero dei lavoratori autonomi (-820mila).

Ai dati quantitativi corrisponde anche un deterioramento di quelli qualitativi in termini di divari generazionali, di genere e tra i territori. Squilibri che non trovano paragoni nel panorama dei Paesi dell’Unione Europea.

È diminuita di circa 1,2 milioni la quota degli occupati con profili di media ed elevata qualificazione compensata da una analoga crescita degli addetti impiegati nei servizi e mansioni meramente esecutive. Negli anni recenti la tendenza si è invertita ma a fronte di una maggiore richiesta di migliori competenze corrisponde una crescente difficoltà da parte delle imprese di reperire risorse umane coerenti con i fabbisogni professionali. Nelle indagini Excelsior (Unioncamere-Ministero del Lavoro) risulta difficilmente reperibile oltre il 40% dei profili richiesti dalle imprese. Con percentuali che superano il 50-60% per profili tecnici o specialistici, anche di tipo esecutivo, e che non scendono al di sotto del 30% anche per quelli che non richiedono particolari percorsi formativi ed esperienze acquisite sul campo.

Numeri impietosi che rivelano gli esiti fallimentari delle nostre politiche del lavoro essenzialmente caratterizzate dalla costante espansione dei sostegni al reddito per la perdita involontaria del lavoro, o per una mera assistenza come nel caso del Reddito di cittadinanza, e da sgravi contributivi per le assunzioni delle diverse categorie di disoccupati che non hanno prodotto i risultati sperati. Politiche estremamente onerose e che hanno comportato un fabbisogno aggiuntivo di risorse finanziarie nazionali ed europee superiore ai 250 miliardi di euro nel corso del secondo decennio degli anni 2000.

Senza un cambiamento profondo di queste politiche nella direzione di dotare il sistema produttivo di risorse umane competenti e motivate verrà meno la possibilità stessa di incrementare la massa critica degli investimenti rivolti a favorire la transizione digitale e la compatibilità ambientale degli apparati produttivi. Un sintomo di questa carenza di risorse umane qualificate emerge dalla difficoltà della pubblica amministrazione di assumere personale specializzato per accelerare la messa in campo delle risorse del Pnrr.

Come migliorare l’utilizzo della popolazione in età di lavoro

Come sottolineato in precedenza, il tasso di occupazione è destinato tendenzialmente a crescere per la riduzione della popolazione in età di lavoro. Ma nelle condizioni attuali la sostenibilità della spesa sociale richiede un aumento che dipende dall’aumento del numero assoluto degli occupati (almeno 2 milioni equivalenti a una riduzione di 6 punti del differenziale con il tasso medio di occupazione dei Paesi Ue).

L’attuale bacino di riserva per far fronte al fabbisogno è rappresentato da circa 4,5 milioni di persone disoccupate o inattive e disponibili a cercare lavoro a determinate condizioni. Per la gran parte giovani, con una elevata componente femminile.

In via del tutto teorica la carenza di offerta di lavoro potrebbe consentire un
graduale riassorbimento di questo bacino accelerando il ricambio generazionale
e di genere.

In effetti nel corso del 2022 qualche movimento in questa direzione si è concretizzato. Ma l’incremento della difficoltà di reperire i profili professionali
da parte delle imprese segnala l’esigenza di ancorare in presa diretta le politiche del lavoro alle caratteristiche della domanda. Una criticità destinata ad aumentare ulteriormente per l’obsolescenza delle professioni e l’aumento del tasso di mobilità lavorativa delle persone (attualmente almeno cinque milioni di persone cambiano il posto di lavoro ogni anno), in relazione agli investimenti tecnologici e agli adeguamenti delle organizzazioni del lavoro.

Una parte significativa della domanda di lavoro non richiede particolari percorsi
professionali e può essere soddisfatta con forme di apprendimento nell’ambito lavorativo. Per questi segmenti dell’offerta di lavoro i sostegni al reddito prolungati nel tempo rappresentano oggettivamente un disincentivo per l’accettazione di una nuova opportunità di lavoro per via dei salari contrattuali ridotti e degli orari disagiati, e dovrebbero essere sostituiti da modalità agevolate di inserimento lavorativo e da una maggiore valorizzazione, anche salariale, del lavoro manuale ed esecutivo.

Il tema dell’adeguamento delle competenze rispetto alla domanda di lavoro qualificato diventa dirimente per l’inserimento lavorativo a valle dei percorsi
scolastici e formativi e per l’aggiornamento di quelle già acquisite nei percorsi lavorativi. I numeri relativi all’utilizzo dei percorsi duali di formazione e lavoro e al coinvolgimento dei lavoratori nei percorsi di formazione continua sono poco meno che disastrosi e devono essere rimediati con il concorso attivo delle parti sociali e del sistema delle imprese. Mobilitando per lo scopo anche gli Enti bilaterali promossi dalla contrattazione per la formazione continua e per il reinserimento lavorativo. Enti che, con il concorso del fondo nazionale per le competenze, dovrebbero porsi l’obiettivo di incrementare il numero dei lavoratori coinvolti nei programmi di formazione continua dall’attuale 12% verso il 40% (obiettivo Ue) nei prossimi 5 anni.

L’utilizzo dello strumento dell’apprendistato, che riguarda attualmente poco più di 400mila rapporti di lavoro, dovrebbe essere almeno triplicato.  L’altro bacino di potenziale crescita della popolazione attiva è rappresentato dall’aumento dell’età pensionabile. Le deroghe applicate negli ultimi dieci anni alla attuazione della legge «Fornero» hanno sostanzialmente vanificato gli esiti attesi. La media dell’età pensionabile rimane attualmente attestata sui 63 anni e l’incremento degli occupati over 65 è risultato alquanto contenuto (350mila unità).

Nel frattempo, nessun investimento serio è stato fatto nella direzione di favorire la partecipazione attiva degli anziani pre e post l’età di pensione.

Aumentare la produttività e i redditi pro-capite

Nei tempi recenti sono state riprese diverse statistiche che evidenziano la stagnazione dei salari reali dei lavoratori italiani, in gran parte correlata alla bassa crescita della produttività del sistema produttivo.

Alla bassa crescita dei salari medi hanno concorso anche le caratteristiche dei nuovi rapporti di lavoro nei comparti dei servizi (accoglienza, ristorazione, attività ricreative, pulizie, servizi alle persone) caratterizzati da stagionalità e da elevata mobilità del lavoro.

La ripresa della produttività, dei salari e dei redditi nell’insieme rimane la precondizione per rendere equa e sostenibile la redistribuzione del reddito. Ma in Italia l’insieme dei meccanismi fiscali e di accesso alle prestazioni sociali muovono nella direzione opposta, quella di penalizzare la crescita dei redditi con tasse e balzelli onerosi e una serie di limitazioni nell’accesso alle prestazioni per coloro che contribuiscono a finanziare la spesa pubblica sociale.

La bassa produttività del complesso del sistema produttivo deriva soprattutto da quella stagnante di molti comparti dei servizi, ivi compresa la pubblica amministrazione.

Nella comparazione con gli altri grandi Paesi della Ue, al netto dei settori finanziario, assicurativo e della grande distribuzione, i comparti dei servizi italiani risultano carenti in termini di investimenti e di valore aggiunto pro capite e sottodimensionati come numero di occupati a parità di popolazione. Le sotto dichiarazioni dei redditi e il lavoro sommerso rappresentano una parte fondamentale delle politiche di prezzo dei prodotti e dei servizi di questi comparti e della formazione dei redditi delle persone. Con effetti negativi per la crescita della produttività e distorsivi per la distribuzione del reddito.

La produttività negativa di molti comparti dei servizi coincide con il sottodimensionamento occupazionale, in particolare della sanità, dell’assistenza,
dell’istruzione (-2 milioni di occupati a parità di popolazione) che risultano condizionati dalla qualità delle politiche pubbliche. Sono settori di attività che in tutti i Paesi europei contribuiscono ad aumentare il tasso di occupazione femminile sui versanti della domanda e dell’offerta di lavoro.

Sono il frutto della carenza di politiche industriali evolute e in grado di canalizzare
favorire la crescita degli investimenti e della dimensione delle imprese e di politiche di welfare rivolte ad aumentare: il tasso di occupazione, le competenze delle risorse umane, le prestazioni del lavoro di cura per i figli e per le persone non autosufficienti.

Rappresenterebbero, paradossalmente anche una straordinaria opportunità di crescita anche per la qualità della vita e dell’occupazione se venisse attribuita al lavoro di cura per i figli e per le persone non autosufficienti la giusta priorità con incentivi fiscali che favoriscono l’emersione delle prestazioni sommerse, e con una riforma del sistema di contrattazione rivolta a rafforzare la relazione tra la crescita della produttività e quella dei salari.

Politiche per l’immigrazione: fine di un ciclo, serve più qualità

Molte delle criticità del mercato del lavoro che abbiamo sottolineato in precedenza sono state compensate dai flussi migratori provenienti da altri Paesi. Con una crescita tumultuosa nel primo decennio degli anni 2000, proseguita nei tempi più recenti per l’incremento delle ricongiunzioni familiari e delle seconde generazioni per attestarsi sull’8,6% della popolazione residente e l’11% di quella occupata.

Il 90% dei lavoratori immigrati risulta occupato con rapporti di lavoro dipendente, in grande prevalenza destinati a mansioni che richiedono una bassa qualificazione.

Meno attenzionato è il progressivo impoverimento dei salari e dei redditi di queste persone nel corso degli ultimi 12 anni, che coincidono con la crescita del peso degli immigrati sul totale degli occupati nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia ed una espansione più recente nei comparti servizi alle persone, nella logistica, nel turismo e nella ristorazione. Ambiti di attività e mercati del lavoro caratterizzati nell’insieme da una elevata stagionalità, da contratti a termine e da una intensa mobilità lavorativa e da quote rilevanti di lavoro sommerso.

Tutti fattori che hanno favorito la crescita esponenziale del numero degli immigrati, circa un terzo di quelli regolarmente residenti secondo le stime più recenti effettuate dall’Istat, che vivono in condizioni di povertà assoluta. La domanda di lavoro rivolta agli immigrati rimane elevata per la carenza di una offerta di lavoro autoctona in grado di sostituire l’esodo pensionistico dei lavoratori anziani nelle mansioni di carattere esecutivo. Un fabbisogno accentuato dalla progressiva riduzione dei flussi di ingresso dei lavoratori comunitari.

Una condizione paradossale che segnala la fine del ciclo delle politiche per l’immigrazione governato, con molta approssimazione, dalle normative introdotte dal testo unico Napolitano-Turco del 1998, emendato più volte nel corso degli anni, e con l’ausilio di 5 sanatorie varate per regolarizzare la posizione lavorativa e il permesso di soggiorno dei bacini di immigrati irregolari.

Le nuove politiche dell’immigrazione dovrebbero farsi carico di favorire la crescita dei redditi delle persone in età di lavoro immigrate con percorsi di fuoriuscita dai circuiti di lavoro sommerso e di qualificare i nuovi ingressi vincolandoli in modo rigoroso alla domanda di lavoro.

L’obiettivo primario deve essere quello di elevare l’attrattività di risorse qualificate del nostro mercato del lavoro nell’ambito della formazione di un mercato del lavoro internazionale all’interno del quale devono essere valorizzate anche le esperienze formative e lavorative dei nostri giovani, con la promozione di intese con i Paesi di origine finalizzati a rafforzare la formazione e la selezione di personale da parte delle imprese o da soggetti accreditati e la possibilità di riconvertire i permessi di ingresso per motivi di formazione in rapporti di lavoro.

Conclusioni

La sostenibilità della crescita economica futura e dell’invecchiamento della popolazione dipendono dall’aumento del tasso di occupazione, dalla qualità delle risorse umane e dalla crescita della produttività. Le comparazioni tra i Paesi europei rendono evidente il rapporto che esiste tra i risultati ottenuti, le politiche fiscali rivolte a incentivare la crescita degli investimenti e dei redditi delle persone, le politiche di welfare rivolte a sostenere le famiglie nel lavoro di cura, le politiche attive del lavoro finalizzate ad accrescere le competenze dei lavoratori. In questi Paesi la crescita dei redditi e dei salari avviene in modo coerente con quella della produttività.

Le distanze tra queste politiche e quelle adottate in Italia sono siderali. Ma nonostante queste evidenze le diagnosi e le cure dei nostri ritardi continuano a fare perno sull’incremento delle politiche passive e dei sussidi assistenziali, su politiche fiscali che disincentivano la crescita dei capitali investiti e dei redditi, con l’introduzione di normative che tendono ad aumentare i vincoli per l’utilizzo delle risorse umane.

Le politiche sbagliate sono parte integrante dell’equilibrio di sottoutilizzo del risparmio e delle risorse umane che caratterizzano molti ambiti delle attività economiche e del mercato del lavoro.

L’evoluzione degli scenari internazionali è destinata a influenzare questi cambiamenti e l’esigenza di tutelare l’interesse nazionale potrebbe fornire la condizione di una ripresa del dialogo sociale e di un concorso attivo delle parti sociali nella direzione auspicata.


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo di Natale Forlani, esperto di mercato del lavoro e politiche migratorie, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

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