ALESSANDRO ROSINA: GIOVANI E LAVORO, UN RAPPORTO IN PROFONDO MUTAMENTO

Published On: 2 Aprile 2024|Categorie: Comunicazione, Il Cloud del Lavoro|

Giovani e Lavoro: un rapporto in profondo mutamento quantitativo e qualitativo

Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e statistica sociale e Direttore del Center for applied statistics in business and economics dell’Università Cattolica, nel suo intervento su “Il Cloud del Lavoro 2023-2024” analizza l’andamento demografico italiano, caratterizzato da un invecchiamento della popolazione e da una diminuzione della quota di giovani in età lavorativa. Una situazione – che se non affrontata – potrebbe portare a una spirale negativa di squilibri strutturali e a un indebolimento delle prospettive di sviluppo economico e sociale.

Il Professore nel suo intervento fornisce poi una fotografia della situazione occupazionale dei giovani definendola critica, con un numero significativo di NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione) e una percentuale relativamente bassa di laureati che trovano occupazione di qualità. Ciò è attribuito a fragilità nel sistema educativo e a una domanda di lavoro di bassa qualità, oltre alla mancanza di adeguate politiche pubbliche e sistemi di orientamento professionale.

Per affrontare questa sfida, sia il settore pubblico che quello privato devono migliorare la qualità della formazione e dell’orientamento professionale, nonché rendere più attrattive le condizioni lavorative per i giovani. Questo include non solo aspetti materiali come stipendio e carriera, ma anche la valorizzazione delle specificità e delle sensibilità dei giovani nei processi produttivi, incoraggiando la loro partecipazione attiva e il loro sviluppo personale.

Il contributo di Alessandro Rosina tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

Il tempo che verrà: le prospettive

GIOVANI E LAVORO: UN RAPPORTO IN PROFONDO MUTAMENTO QUANTITATIVO E QUALITATIVO

Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento della popolazione in età attiva, l’Italia rischia di scivolare in una spirale negativa di irreversibile aumento degli squilibri strutturali e conseguente indebolimento delle possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale.

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è tra quelli guardati con più attenzione nelle economie mature avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si produce ricchezza a quello in cui si assorbono risorse pubbliche per spesa previdenziale e sanitaria.

Fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita di tale indicatore è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), ma nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore. L’entità dell’indebolimento lo si può ottenere guardando al rapporto tra trentenni e cinquantenni. In Francia la fascia 30-34 è circa il 90% della fascia 50-54, si scende attorno all’85% in Germania, al 75% in Spagna, al 67% in Italia.

L’energia maggiore di cui hanno bisogno le economie mature che vogliono crescere è quella rappresentata da capacità e competenze nuove in grado di alimentare sviluppo e innovazione, che hanno come fonte privilegiata il capitale umano delle nuove generazioni.

Un primo fattore di debolezza del nostro Paese nel rapporto tra domanda e offerta nel mondo del lavoro è allora costituito, proprio, dall’accentuato processo di «degiovanimento» quantitativo.

Alla questione del perché le aziende fanno sempre più fatica a trovare i giovani qualificati di cui hanno bisogno una prima risposta è che ne abbiamo meno, sia rispetto al passato che guardando ai Paesi con cui ci confrontiamo. All’epoca dell’Italia del miracolo economico del secondo dopoguerra gli under 30 erano circa la metà della popolazione italiana, ora sono il 27% (il valore più basso in Europa).

La seconda risposta è che non solo abbiamo lasciato ridurre maggiormente la consistenza delle nuove generazioni ma non abbiamo nemmeno strategicamente compensato la riduzione quantitativa con un uso più efficiente di tale risorsa, attraverso il rafforzamento della loro formazione, del loro inserimento nel mondo del lavoro, della valorizzazione del loro capitale umano nel sistema produttivo. Siamo così entrati sempre più in una spirale di degiovanimento sia quantitativo che qualitativo. L’indicatore che maggiormente sintetizza questo fattore di indebolimento nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro è il tasso di Neet che esprime l’incidenza di under 35 che dopo aver finito (o abbandonato) gli studi non hanno un impiego.

È stato introdotto nel 2010 dall’Unione europea come misura di quanto un Paese «spreca» la propria risorsa giovani e da quando il dato viene fornito dall’Eurostat l’Italia risulta costantemente ai livelli più alti (si arriva vicino al 30% nella cruciale fascia 25-34 anni). L’elevato numero di Neet deriva da fragilità lungo tutta la transizione scuola-lavoro. Troppi ragazzi escono con preparazione fragile dal percorso formativo e bassa è la percentuale di laureati (pari a circa il 27% nella fascia 30-34 anni mentre è superiore al 40% la media europea). Chi poi arriva al più alto titolo di studio si trova con tassi di occupazione sensibilmente più bassi rispetto ai coetanei degli altri Paesi avanzati. Secondo i dati Istat del report «Livelli di istruzione e ritorni occupazionali – 2021», il tasso di occupazione tra gli under 35 che hanno conseguito la laurea da uno a tre anni è pari al 67,5% ed è sotto di ben 17,4 punti percentuali rispetto alla media europea.

Pesa su tale divario una domanda di lavoro di bassa qualità e la carenza di sistemi esperti di incontro tra domanda e offerta (rete dei Centri per l’impiego con operatori qualificati), come testimoniato dal dato dell’overeducation (percentuale di giovani che svolgono un lavoro che richiede un titolo inferiore a quello posseduto) e degli Expat (giovani che emigrano per trovare migliori opportunità in altri Paesi, in numero molto maggiore rispetto a chi fa il percorso inverso).

I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo evidenziano un desiderio nei ventenni italiani di sentirsi riconosciuti positivamente come forza di sviluppo del Paese non certo inferiore rispetto ai coetanei europei. Si sentono però dotati di minori strumenti utili a superare le proprie fragilità e a far emergere le proprie potenzialità, fuori dall’ambiente protettivo della famiglia di origine. Esprimono, in particolare, un giudizio generalmente favorevole sulla scuola, ma, nel confronto con i coetanei europei, la vedono meno utile per affrontare il mondo del lavoro. Alla domanda sulla sua utilità nell’aumentare conoscenze generali, nell’imparare a ragionare, nel formare cittadini consapevoli, le risposte dei giovani del nostro Paese non si differenziano molto dai coetanei tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli. Sul riconoscimento del beneficio, invece, rispetto a trovare impiego di qualità e a capire come funziona il mercato del lavoro, le percentuali risultano sensibilmente inferiori.

Qui si inserisce la terza risposta. Se le politiche pubbliche devono rafforzare la qualità della formazione e la qualità dei servizi di orientamento e accompagnamento nel mercato del lavoro, è sempre più riconosciuta l’esigenza che le organizzazioni debbano fare un salto di qualità nell’essere attrattive verso i giovani e nella capacità di trattenere e fare crescere i nuovi talenti (intesi nell’accezione più ampia) al proprio interno.

Come mostrano i dati di molte ricerche, stipendio e carriera, così come tipo di contratto e possibilità di smart working, sono aspetti che contano, ma non fanno di per sé la differenza. Rientrano piuttosto in un concetto di benessere più ampio che include il riconoscersi nei valori dell’azienda, la qualità delle relazioni, l’impatto sociale, l’armonizzazione tra impegno lavorativo e vita privata. In particolare, tornando ai dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, da una recente indagine emerge come l’aspetto del lavoro più importante tra gli under 35 sia la realizzazione professionale (14,8%), seguito dal riconoscimento nei valori dell’azienda (11,8%). Il guadagno è in terza posizione (poco sopra il 10%), su livelli analoghi alla possibilità di usare in modo flessibile tempi e organizzazione lavorativa, mentre ancor più sotto si trova «fare carriera» (7,3%).

C’è soprattutto il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Millennials e Generazione Zeta sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero soprattutto poter portare quello che sono. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione scoperta, ma generare valore con la novità che rappresentano. Il fenomeno della «Great resignation» è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se i giovani non sentono rafforzarsi le condizioni di benessere più ampio, buon stipendio e stabilità di contratto non bastano più a trattenerli. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano.

In definitiva, per lo sviluppo competitivo del Paese in questo secolo non serve solo la mera occupazione dei giovani, ma la capacità di metterne pienamente a valore le specificità e sensibilità nei processi che generano nuova ricchezza e benessere. Questa operazione antropologica è ciò che più manca nel sistema produttivo italiano, prima ancora che le infrastrutture e la dotazione tecnologica.

 


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo di Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e statistica sociale e Direttore del Center for applied statistics in business and economics dell’Università Cattolica, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

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