AGOSTINO DI MAIO, IL RITORNO DEI VALORI

17 Dicembre 2024|Categorie: Comunicazione, Il Cloud del Lavoro|

Il ritorno dei valori

Agostino Di Maio, Direttore Generale di Assolavoro, nel commentare “Il Cloud del Lavoro 2023-2024” evidenzia come i temi principali ad emergere nel volume siano due: l’impatto dell’intelligenza artificiale sui processi aziendali, dovuto anche alla rapida diffusione di strumenti come ChatGPT, e i cambiamenti valoriali che guidano i giovani nel mondo del lavoro.

L’introduzione di tecnologie avanzate sta sollevando, infatti, sempre più interrogativi sui posti di lavoro che verranno a crearsi e su quelli che andranno sostituiti. Allo stesso tempo, le nuove generazioni manifestano aspettative più elevate rispetto al lavoro, ricercando nelle aziende retribuzioni adeguate e opportunità di crescita personale, oltre ad impatti sociali positivi e attenzione al work-life balance. I giovani appartenenti a Gen Z e i Millennials danno ora maggior importanza a creatività e flessibilità, oltre all’autoimprenditorialità e all’orientamento ai risultati.

Questo cambio di valori richiede, dunque, nuove strategie aziendali da adottare come fattori di attraction e retention, ripensando in primis a modelli organizzativi innovativi, politiche di welfare aziendale e percorsi di carriera trasparenti. La sfida principale rimane quella di garantire un mercato del lavoro sostenibile, che combini flessibilità con stabilità economica e soddisfi le aspettative individuali in un contesto di transizione continua. È necessaria, pertanto, un’evoluzione culturale e politica che metta al centro un “Umanesimo del lavoro”, capace di intercettare e valorizzare i nuovi bisogni di una forza lavoro sempre più eterogenea e in trasformazione.

Il contributo di Agostino Di Maio tratto da “Il Cloud del Lavoro 2023-2024”


 

Postfazione

IL RITORNO DEI VALORI

Tirare le conclusioni di questo «Cloud del Lavoro 2023-24» è impossibile per la molteplicità di prospettive e sollecitazioni offerte dai tanti contributi raccolti. D’altra parte l’obiettivo di questa pubblicazione non era certo quello di tracciare una rotta bensì di evidenziare la ricchezza di un dibattito pubblico sul lavoro che richiede alla politica, ai corpi sociali e all’accademia uno sforzo ulteriore per provare a ragionare, senza pregiudizi e anche da prospettive talvolta opposte, su questioni sempre più centrali per la nostra società.

Ciò detto può essere invece utile richiamare almeno due temi che proprio in queste settimane sono al centro delle cronache e che appaiono destinati a rimanervi a lungo. Il primo riguarda ChatGPT, il più popolare e recente esempio di intelligenza artificiale, il cui utilizzo è stato bloccato in Italia dal Garante della Privacy proprio mentre andiamo in stampa. Al di là di come si concluderà questa vicenda abbiamo inserito in questa raccolta un articolo – che in virtù dell’embargo assume il carattere della rarità – redatto proprio da ChatGPT per sottolineare una delle «faglie» più profonde che attraversano il mondo del lavoro – quella tecnologica – e che evocano ancora una volta lo spettro dell’eterna ed irrisolta domanda su quale sarà il saldo tra i posti di lavoro creati e distrutti da un’evoluzione sempre più pervasiva ed apparentemente senza confini. La storica foto della sconfitta del campione di scacchi Kasparov da parte di Deep Blue di IBM (1997) sembra per certi versi preconizzare se non una risposta, almeno uno scenario.

Se da un lato ci si interroga, preoccupati, sugli effetti dell’Artificial Intelligence sembra invece ancora incompiuta la riflessione su cosa stia avvenendo all’altro capo del binomio Persona-Macchina, e cioè delle conseguenze del radicale cambiamento della mappa valoriale che oggi orienta in particolare i giovani che si accingono a passare dalla fase dell’istruzione a quella della vita attiva o che sono già nel mercato del lavoro e magari si apprestano a cambiare occupazione.

La grande mobilitazione di questi giorni in Francia, iniziata contro il progetto governativo di innalzamento dell’età pensionabile e rapidamente trasformatasi in una vera e propria rivolta soprattutto dei giovani al grido non tanto di lavorare meno ma di lavorare meglio – cioè di un recupero di senso del lavoro in termini di crescita personale e di emancipazione non solo economica – ne è una riprova eclatante. Siamo forse agli inizi di un nuovo «Maggio francese» destinato ad incendiare le nostre società ed il mondo del lavoro come lo conosciamo?

Già un’indagine Eurobarometro del 2021 sui giovani (16-30 anni) sottolineava la richiesta di percorsi professionali che consentissero il raggiungimento di obiettivi quali la lotta alla povertà, alle disuguaglianze, ai cambiamenti climatici o la riduzione della disoccupazione. Analogamente quasi la metà dei giovani (17-26 anni, OCSE) di 45 paesi in Africa, Americhe, Asia Pacifico, Europa e Medio Oriente dichiarava di scegliere i propri datori di lavoro in base alla loro etica, mentre il 40,6% dei giovani (18-35 anni, World Economic Forum) in tutto il mondo sottolineava come lo scopo o l’impatto sulla società fosse uno dei criteri più importanti nella valutazione delle opportunità di lavoro. In Europa e Nord America i giovani oggi classificano l’impatto sulla società al di sopra dello stipendio e della retribuzione, complice la pandemia di COVID-19 che ha ulteriormente aumentato il loro desiderio di apportare un cambiamento nel mondo. In Italia abbiamo cominciato solo da poco, e per ora timidamente, ad accorgerci che qualcosa sta cambiando nel rapporto tra le persone e il loro lavoro prevalentemente sull’onda delle «grandi dimissioni» (great resignation) e del «quiet quitting», cioè il progressivo e silenzioso disimpegno dal lavoro vissuto come alienante e la ricerca di un più soddisfacente equilibrio con la sfera privata. Il fenomeno del «great reshuffle», il rimescolamento cioè di coorti sempre più numerose di lavoratori alla ricerca di nuove e diverse esperienze lavorative, sta evidenziando in maniera plastica la natura sempre più transizionale dei mercati del lavoro e il mutamento valoriale nel rapporto con le nostre occupazioni, che diventano elemento centrale di una profondissima «ricerca di senso» e di «realizzazione del sé». Il lavoro non è più un «altrove» distinto, talvolta distante, dal resto della nostra vita, oppure il mero strumento di sostentamento e affrancamento dal bisogno, ma un ambito chiamato a soddisfare ambizioni, aspettative, visione della vita e del futuro. La rappresentazione «fisica» di questo fenomeno è per numerose professioni anche l’assottigliamento (rectius sgretolamento) delle barriere fisiche tra tempo di vita e tempo di lavoro (smart working, remote working e non solo).

Le cosiddette Generazioni Z (coloro i quali hanno oggi dai 9 ai 20 anni) e Y (Millennials, 21-40 anni), che molto presto costituiranno la stragrande maggioranza della forza lavoro attiva a livello globale, hanno motivazioni e prospettive individuali radicalmente diverse rispetto alle generazioni che le hanno precedute, in particolare di quella dei c.d. Baby Boomers (57-74). Secondo le analisi sociologiche prevalenti i tratti salienti della Gen Y e Z sono la competitività e  l’orientamento ai risultati, l’autoimprenditorialità, la creatività, l’individualismo, la personalizzazione, la responsabilità.  Sempre alla ricerca di nuove migliori occasioni, entrambi i gruppi nutrono forti aspettative sui percorsi di carriera, meglio se rapidi e con forti connotazioni di indipendenza e, soprattutto, di individualità. È del tutto evidente come questi tratti valoriali, e gli elementi di discontinuità ad essi connessi, impattino sui mercati del lavoro generando dinamiche nuove e questioni ancora in gran parte irrisolte che chiamano in causa managers per i modelli/stili organizzativi delle aziende, policy makers per l’efficacia/efficienza delle politiche pubbliche, corpi sociali intermedi per l’esercizio di una nuova rappresentanza.

Tra le aziende i players più efficienti si stanno da tempo orientando verso modelli organizzativi a rete, con pochi livelli gerarchici nei quali la valorizzazione del capitale umano passa attraverso gestioni manageriali partecipative, sempre più attente al soddisfacimento dei bisogni dei singoli e alla conseguente valorizzazione di beni anche intangibili come la conciliazione vita-lavoro, l’orario di lavoro, l’accountability e il welfare aziendali, la chiarezza dei comportamenti manageriali e la trasparenza soprattutto nei percorsi di carriera, la condotta etica e la salvaguardia del clima aziendale, l’inclusività e la non discriminazione. Termini come mentoring, coaching e tutoring fanno ormai stabilmente parte dell’alfabeto aziendale: è questo il «prezzo» che le aziende più evolute sono disposte a pagare volentieri pur di attrarre, coltivare e trattenere i talenti di cui hanno bisogno, per aumentare l’engagement e sopravvivere nel mercato della competizione globale.

Sul versante pubblico i policy makers sono chiamati ad interrogarsi seriamente sull’efficacia delle politiche messe in campo per incrementare i tassi di partecipazione al mercato del lavoro e di attivazione riducendo la dispersione dei giovani (ma non solo) assicurando l’equilibrio e la sostenibilità economico/sociale di mercati del lavoro polarizzati (geograficamente, anagraficamente, economicamente e per genere) nei quali coesistono elevati tassi di disoccupazione, basse percentuali di attivazione, un perdurante ma insostenibile mismatch tra domanda ed offerta ed un grave ritardo nell’upskilling e nel reskilling.

I corpi sociali intermedi (sindacati, ma anche partiti) da tempo dovrebbero porsi il tema di come intercettare e dare voce a istanze che sono sempre meno collettive ma sempre di più plurime, intese cioè come sommatoria di singole individualità non riconducibili a unità.

Il tema della «personalizzazione» degli interventi è cruciale anche sul terreno delle politiche pubbliche che dovrebbero essere progettate per soddisfare queste nuove istanze: il defaticante e sovente sterile dibattito sull’efficacia delle politiche attive nel nostro Paese è in questo senso paradigmatico. In troppi casi le misure  appaiono fortemente connotate dal disconoscimento dell’autodeterminazione del singolo, da una invasiva burocratizzazione che soddisfa le Amministrazioni senza generare un effettivo valore, dalla spersonalizzazione dei servizi anche a causa di  profilazioni sommarie, dalla mancanza di indicatori idonei a misurarne l’efficacia, dall’assenza di azioni di orientamento dei giovani e da una formazione professionale capace di essere distante sia dalla reale domanda di lavoro che dalle aspettative del singolo.

Di fronte ad uno tsunami valoriale che imporrebbe risposte sistemiche capaci di intercettare i nuovi bisogni si assiste all’allargamento della forbice tra dinamiche gestionali private e politiche pubbliche, quest’ultime sempre più condizionate da vincoli culturali e inefficienze amministrative. Divario destinato ad allargarsi se si guarda alla velocità e all’accelerazione dei cambiamenti in atto.

Il ritardo nell’adozione di politiche coerenti rischia di aumentare la polarizzazione sia tra insider ed outsiders che tra i diversi mercati del lavoro (in sviluppo o in declino), incrementando le disuguaglianze, la conflittualità sociale, la dispersione e generando costi sociali ed economici insostenibili già nel breve-medio periodo. Per troppi anni la riflessione è parsa incentrata quasi prevalentemente sul lato della domanda di lavoro e di come soddisfarla, con risposte talvolta parziali quando non errate sulle tipologie contrattuali flessibili o sull’uso di sgravi e incentivi assunzionali. Appaiono ancora tutte da sviluppare compiutamente le analisi sulle tensioni che da tempo attraversano i  mercati del lavoro dal lato dell’offerta, condizionata da fattori come il declino demografico, la diffusione del lavoro «povero», la sempre maggiore incidenza del lavoro irregolare quando non in nero, l’affermarsi dei lavori c.d. «neoservili» e da settori sempre più ampi connotati da inaccettabili debolezze salariali. Tutti fattori che determinano una «distanza » tra le persone e il proprio lavoro ulteriormente accentuata dall’evoluzione valoriale in atto.

Occorre interrogarsi su quanta parte del ritardo culturale nel «leggere» i nuovi bisogni sia dovuto a perduranti condizionamenti ideologici o a categorie interpretative tanto rassicuranti nella loro semplicità quanto inefficaci nel decodificare l’odierna complessità. Gli esempi anche illustri non mancano, a partire da John Maynard Keynes (1931) che ipotizzò, come soluzione alla disoccupazione tecnologica, settimane lavorative di quindici ore fino alle sempreverdi suggestioni del «lavorare meno per lavorare tutti» che prendono ancora a riferimento come parametro esclusivo «l’ora lavorata per addetto» e luoghi di lavoro che ricordano le vecchie fabbriche con «muri e cancelli».

Le letture formalistiche di diversi istituti del mercato del lavoro esprimono ancora oggi il meglio di sé quando si tratta di distinguere «precarietà» e «flessibilità». La dicotomia lavoratori a tempo indeterminato versus assunti a termine, traslata automaticamente sull’asse della Tutela/Precarietà, è foriera di un errore di prospettiva gravido di conseguenze in un mercato del lavoro in cui solo il 56,8% dei tempi indeterminati supera i 547 giorni (un anno e mezzo, fonte Unilav, Min.Lav) mentre il 34,8% non va oltre l’anno. Questi numeri ci restituiscono la complessità di un mercato segnato dall’obsolescenza delle competenze, da rapidi turnover, da profili professionali c.d. «introvabili» o, viceversa, da figure professionali in arrestabile declino.

Analogamente appare superiore alle capacità di taluni lo sforzo di indagare nel concreto gli elementi fattuali propri di ciascuna tipologia assunzionale per adottare politiche coerenti, promozionali o di contrasto. Esemplificativo è lo stato della riflessione su quali siano oggi gli istituti del mercato del lavoro più idonei ad accompagnare le persone nelle transizioni lavorative, garantire salari adeguati e rispettosi della contrattazione (non pirata), dotati di un solido e permanente sistema di aggiornamento professionale o di un welfare capace di soddisfare le diverse dimensioni del bisogno. A guardar bene non si tratta di una discussione limitata all’inner circle dei giuslavoristi o dei cultori della materia, ma di una non più rinviabile evoluzione ermeneutica il cui ritardo impatta in maniera incisiva sui diritti e sulla cittadinanza economica dei lavoratori (basti pensare ai criteri formalistici ancora oggi seguiti da gran parte degli istituti di credito per valutare la solvibilità di chi chiede un finanziamento o un mutuo).

Nella società post-industriale e post-ideologica nella quale viviamo non «leggere» i nuovi valori che orientano sempre più persone e comportamenti non solo allontana le soluzioni ma apre il varco a pericolose scorciatoie formalistiche i cui fulgidi esempi non sono peraltro mancati in diversi provvedimenti adottati negli ultimi lustri: è forse giunta l’ora di cambiare passo guardando negli occhi, ma con occhiali nuovi, questo straordinario, ricchissimo e policromo Umanesimo che ci si staglia dinanzi.


IL CLOUD DEL LAVORO 2023-2024

Il contributo di Agostino Di Maio, Direttore Generale Assolavoro, è contenuto all’interno de “Il Cloud Del Lavoro 2023-2024“, l’annuale pubblicazione di Assolavoro che raccoglie al proprio interno riflessioni e proposte di esperti e manager delle Agenzie, giuslavoristi, economisti, rappresentanti istituzionali e sindacali, ministri, ex ministri e dirigenti pubblici.

L’obiettivo de Il Cloud del Lavoro è quello di offrire le coordinate più puntuali su regole, flessibilità, politiche attive, servizi, Agenzie per il Lavoro, dati, formazione, competenze, welfare, relazioni industriali, digitalizzazione, intelligenza artificiale e prospettive del mercato del lavoro tra il 2023 e 2024.

Assolavoro pubblica in esclusiva ogni settimana un contributo tratto dalla pubblicazione con l’obiettivo di stimolare il dibattito online sul futuro del mercato del lavoro.

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